martedì 14 aprile 2009

Analisi del film "Nostra Signora dei Turchi" di Carmelo Bene. Rito e dissacrazione.


Lo scontro con il cinema di Carmelo Bene (quarta parte).

Rito e dissacrazione.

Carmelo Bene dal teatro prende il rito, la liturgia e lo trasferisce nel cinema. Operando in tale senso una forte dissacrazione in quanto il rito non serve come  celebrazione, ma come tensione all’inettitudine. Il “Lui”, soggetto del film, si prodiga in una serie di riti che dovrebbero renderlo cretino. Cretino invece di santo.

Al centro dei riti c’è sempre il corpo: ferito, immobilizzato, avvolto da bende, denudato. C’è tutta una dinamica degli impedimenti: il corpo con le mani legate dietro la schiena che cerca di fare le valige, gli oggetti che si oppongono ad essere rimessi a posto, un’armatura che nega un rapporto carnale. Gli atti non vengono portati a termine. I riti sono inutili e vengono condotti in modo goffo e incompetente. Si legge infatti nel romanzo:

 

In fondo, in questi riti, salvo una o due volte soltanto, non era mai riuscito a superare i preamboli. Si era smarrito nel rituale, sfinito, ferito, addormentato o ubriaco, e senza grazia.

 

Una liturgia in cui gli oggetti hanno una precisa importanza e  vengono racchiusi i due gruppi: quelli appartenenti all’orsa maggiore sono elementi stabili del rituale (i gerani, le candele, gli alcoolici, l’alcool puro, i portacenere, il vino molto graduato, lo specchio); quelli dell’orsa minore sono invece variabili, considerati una debolezza, motivo di distrazione continua. Questa variabilità degli oggetti ha in realtà poco in comune con una caratteristica fondamentale del rito, cioè il suo ripetersi sempre uguale a se stesso. In effetti nel film, come fa notare Saba, si danno solo “atti mancati, gesti sospesi, impasse: non accade null’altro che una «parodia della vita interiore».

Gli unici rapporti che il personaggio intrattiene sono con una santa, Santa Margherita, che rappresenta uno degli apici della dissacrazione. Una santa che pratica il sesso, fuma e legge “Annabella”.

 

Nell’assenza di tempo che caratterizza la liturgia, il film è immerso in un eterno presente. Inoltre, come una sorta di memoria pre-storica, il mito interferisce in questo presente infinitamente dilatato attraverso la leggenda cristiana della strage di Otranto (24 Luglio 1480) da parte dei turchi di Maometto II, in cui ottocento cristiani rifugiati nella cattedrale vennero decapitati dopo aver rifiutato l’abiura. Il “lui” del film è un superstite, scampato alla decapitazione perché il suo carnefice, convertito al cristianesimo, fu crocefisso.  Così viene spiegato dalla voce off di Bene

Pose il capo su un sasso […]. Si ridestò che non lo avevano ancora decapitato. Guardò in alto, cercando il suo carnefice e lo trovò crocifisso. Gli spiegarono che era stato così punito perché aveva all’improvviso mutato fede. Poi gli dissero di levarsi e andarsene. Lui non avrebbe osato insistere, lo avevano umiliato, non c’è dubbio.

Il passaggio temporale viene sottolineato da una dissolvenza: dall’immagine del teschio di uno dei martiri (che aveva conservato gli occhi), emerge il volto di Carmelo Bene che poi si dissolve nuovamente nel teschio.  In seguito la sua figura compare di profilo e dice: «Sì, sono io», e prendono avvio le gesta del personaggio.

Il mito ritorna varie volte nel corso del film, scandendo ritmicamente le sequenze.

 

Questa “parodia della vita interiore” è condotta attraverso un continuo sdoppiarsi, a partire dalle prime sequenze con l’inseguimento tra il gangster e il turco, fino a giungere alla scena del frate anziano che si doppia nel frate giovane (“caricatura novizia di se medesimo”).

Questo sdoppiarsi provoca profonde ferite nell’Io, tutto il rituale può essere considerato come autodistruzione dell’Io. Il corpo viene rappresentato per la maggior parte del tempo avvolto da bende, che coprono ferite non rimarginabili. Le identità si confondono, il turco viene ucciso con il passaporto in mano, che certifica sia la sua identità che quella del suo uccisore, il gangster, che poi infatti lo raccoglie e se lo mette in tasca come se avesse riconquistato la propria identità.

Lo sdoppiarsi di Carmelo Bene in una moltitudine di personaggi non è semplicemente un vezzo da istrione. Infatti invece di parlare di personaggi bisognerebbe parlare di una proliferazione di identità, di una frammentazione dell’Io in tanti e virtuali possibili.

Qui entra in gioco il carattere autobiografico di questa “parodia della vita interiore”.

Carmelo Bene ha sempre dichiarato il suo non esserci, il suo essere altrove. Nostra Signora dei Turchi inizia con la voce off che dice: «Attiguo a casa sua stava un palazzo moresco» e termina dicendo: «se non fossi un palazzo, mi crederebbero».

Piergiorgio Giacchè fa notare che è Carmelo Bene quel palazzo moresco:

 

Abitava un castello moresco…dovunque se ne andasse e comunque operasse. Lo spazio-tempo della scena (o della pellicola o della pagina…) non era che una zona franca dove poter alloggiare – momentaneamente – il suo altrove. Per questo in palcoscenico si mostrava fastidiato e molesto, per questo da ogni palcoscenico voleva e doveva sparire in continuazione, suscitando irritazione o stupore. Anche lui del resto, mentre celebrava incessantemente la divertita amarezza del non esserci mai, si irritava o stupiva di come potesse ancora esistere un teatro di rappresentazione della realtà e un pubblico abbonato alla conferma del proprio ruolo e della propria identità. Contro quel pubblico è l’attore che ha fatto del suo meglio, ma non gli è riuscito che di attrarre e distrarre pochi spettatori devoti: quelli che si sono lasciati prendere e perdere nell’altrove irrappresentabile e impossibile e indicibile, che poi è da sempre il nessun luogo e il senza tempo verso cui dovrebbero tendere tutti i veri artisti… Ma quanti sono poi? Cosi, nella solitudine del suo non-luogo e nel vuoto del suo fuori-tempo, Carmelo Bene da subito aveva deciso di identificarsi: era lui quel castello moresco.

 

Le ferite sul corpo rappresentano altrettante ferite nell’ Io.

Il 31 luglio 1981, dall’alto della Torre degli Asinelli di Bologna, Carmelo Bene lesse la divina commedia a duecentomila spettatori. Alla fine di quell’incredibile serata disse: «dedico questa mia dizione, da ferito a morte, non ai morti ma ai feriti».

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1 commento:

  1. Saggio essenziale ma molto preciso, senza andare nelle profondità più filosofiche dell'opera di Bene, non dimenticarti però che "ferita era la benda"!!! Quando l'io non esiste (unitariamente) le ferite non possono appartenere a nessuno (vedi anche Deleuze). Anche sulla ritualità si potrebbe approfondire partendo ancora da Deleuze e dalle due parole chiave "differenza" e "ripetizione", lo stesso Bene dirà "ho frequentato un cinema della differenza e della ripetizione".

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