sabato 30 maggio 2009

Il sarcofago.

Il sarcofago  (The Sixteen-Millimeter Shrine) è il titolo del quarto episodio della serie tv americana Ai confini della realtà (The Twilight Zone). 

Una attrice che non riesce a rassegnarsi alla sua età avanzata passa le giornate chiusa nella sala di proiezione della sua villa e rivede i suoi vecchi film…

 

SCHEDA:

Sceneggiatura: Rod Serling.

Regia: Mitchell Leisen

Musiche di Franz Waxman.

Prima trasmissione: 23 ottobre 1959.

 

Attori:  Ida Lupino (Barbara Jean Trenton), Martin Balsam (Danny Weiss), Alice Frost (Sally),Tedde Corsia (Marty Sall), Jerome Cowan (Jerry Hearndan), John Clarke (Heardan nel film).

Mitchell Leisen (1898 – 1972) è stato un regista statunitense che iniziò a lavorare come costumista. Lavorò con DeMille, Walsh e Lubitsch. Iniziò a girare film nel 1933 e divenne importante nella direzione delle donne.

Ida Lupino (1918 – 1995) attrice londinese di rilievo ma anche una delle poche registe donna di grande importanza.

 

Martin Balsam (1919 – 1996) attore statunitense formato all’Actors Studio. Tra le sue interpretazioni ricordiamo quella di uno dei giudici popolari in La parola ai giurati di Lumet e il detective Arbogast in Psyco di Hitchcock.

Questo episodio segue una struttura scandita dallo sprofondamento nell’isolamento della protagonista, fino ad arrivare al colpo di scena finale in cui la realtà e il cinema si contaminano con un procedimento molto simile ma inverso a quello presente nel film La rosa purpurea del Cairo di Woody Allen, a sua volta omaggio a La palla n. 13 di Buster Keaton. Come il precedente episodio (Al Denton nel giorno del giudizio) non è tra i miei preferiti. Ci sono però notevoli invenzioni cinematografiche come la scena che ho riportato nell’immagine di questo post. L’immagine dell’attrice viene doppiata da quella sullo schermo con una compresenza tra passato e futuro e un presagio di ciò che accadrà. Ma ancora non vi ho detto cosa accade…

Trama (attenti! Viene riportata anche la fine dell’episodio!)

 

Barbara Jean Trenton è un’attrice ormai incamminata per il viale del tramonto. Non riesce ad accettare il tempo che passa e a considerare il suo passato di giovane attrice come ormai chiuso. Vive la maggior parte della sua giornata chiusa in una sala da proiezione domestica a rivedere i suoi vecchi film in cui appare giovane e bella. Si trova più a suo agio in quella realtà che nella vita di tutti giorni che gli ricorda giorno dopo giorno la sua età. Il suo atteggiamento desta la preoccupazione del suo agente e amico Danny Weiss che riesce a procurargli un provino credendo che le faccia bene. Ma quando le viene proposto un ruolo da madre lei rifiuta categoricamente ritenendosi molto offesa. È un grande colpo per lei e finisce per richiudersi ancora di più nel suo sarcofago. L’amico sempre più preoccupato le combina un incontro con l’attore che recitava nei suoi vecchi film, Jerry Hearndan. Lei è molto eccitata della notizia ma quando si trova di fronte un uomo che porta sul viso tutti i segni del tempo non accetta quella realtà. Lei credeva di incontrare il bel giovane con cui aveva girato le scene d’amore dei suoi film. La realtà è troppo crudele per lei. Il finale è ovvio: finisce per entrare nello schermo e perdersi (o forse ritrovarsi) nella realtà che tanto le mancava.

 

Appare a questo punto evidente il rapporto con il film di Woody Allen. In quel caso però l’attore usciva dallo schermo. I temi sono evidenti: la difficoltà di abbandonare un passato pieno di glorie e di fama e di accettare il normale scorrere del tempo. La protagonista è un  individuo il cui lavoro era fortemente legato alla sua immagine e il pensiero che quest’ultima debba andare via via verso il deperimento provoca una grande crisi e una pericolosa chiusura in un passato che ormai non è più.

La fuga nello schermo è una liberazione e un atto anarchico contro il naturale scorrere delle cose.

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giovedì 28 maggio 2009

Come funziona Blob di Enrico Ghezzi.

In un precedente articolo avevo espresso qualche considerazione sul programma tv Blob, in onda ogni sera alle 20 circa. Mi ero soffermato soprattutto sul montaggio. Ora vorrei aggiungere un  altro elemento che spero serva di aiuto all’interpretazione di questo programma, che ha ormai vent’anni. Cercherò di far capire come Blob usi fondamentalmente una tecnica vicina al teatro di Brecht.

Secondo Brecht il teatro deve mostrare il mondo nelle sue possibilità di essere cambiato, solo così si possono animare le coscienze delle persone. Se il mondo viene invece considerato immutabile automaticamente le coscienze si assopiscono. Per servire questo scopo Brecht diede vita ad una nuova forma di teatro che si basava sulla tecnica dello straniamento

Proponendomi in futuro di trattare nello specifico l’argomento, mi limito a dire che questa tecnica si contrappone fortemente all’immedesimazione. Si intende l’immedesimazione dello spettatore in ciò che vede. Nel teatro tradizionale tutto tende a immergere lo spettatore nell’illusione. Tutto ciò che è finto e che suggerisce la teatralità e la falsità dell’evento viene occultato. Per Brecht questo atteggiamento spinge il pubblico verso l’inattività perché mostra le vicende come normali, naturali, ovvie e abituali. Brecht invece è nemico dell’abitudine, vera causa dell’inerzia della coscienza. Il mondo deve essere trattato come eccezionale. Solo stupendosi di un evento si può sperare di cambiare le cose.

Un esempio pratico che ci riguarda: se non ci stupiamo più che un uomo non paghi le tasse (e da quanto ormai non ce ne stupiamo più!), l’evasione fiscale diventa un fatto normale (e ormai lo è), la coscienza si abitua e non si attiva più per combatterlo.

Ciò va applicato alla scienza e all’arte. Può uno scienziato non stupirsi di ciò che avviene in natura? Se Galileo avesse considerato normale la Luna e si sarebbe abituato ad essa, avrebbe scoperto ciò che ha scoperto? Lo stesso vale per l’artista: può l’artista abituarsi al reale?

Questa stessa tecnica viene quotidianamente applicata da blob. Quando mostra veline che ballano, tette e culi che abbondano, scene patetiche di dibattiti politici e il trash del trash della tv, non lo fa semplicemente per farci ridere. Ma toglie le immagini da un contesto nel quale siamo abituati a vederle nella loro assurdità, tanto che ormai le consideriamo la norma, e le pone nei suoi venti minuti di durata per far esaltare la loro eccezionalità

Se ci pare normale vedere a Porta a Porta due politici che litigano, se ci pare normale vedere donne che ballano nude (non sono bigotto ma la considero una vergognosa mercificazione del corpo della donna), se ci pare normale vedere donne che litigano per un uomo davanti ad una Maria De Filippi buttata a terra in un paio di jeans di sua nipote, se ci sembra normale che la tv faccia i soldi sui freaks come accadeva nei baracconi ottocenteschi (leggi il precedente articolo)…se tutto questo nel loro contesto ci pare normale, visto nei venti minuti di Blob ci pare invece eccezionale e possiamo dire: “Ma guarda un po’ che si deve vedere…”.

In questo senso il lavoro di Blob è molto più importante di quanto sembri a prima vista perché combatte quotidianamente contro l’abitudine che dovrebbe essere considerato davvero come il male dei mali in assoluto (dopo le poesie di Sandro Bondi ovviamente).

Leggi anche:

Blob, il fluido mortale e i vent’anni del Blob della Rai.

“Lo Show dei record” e “Ti lascio una canzone”, i mostri della televisione.

La differenza tra acrobati e freaks. E poi i tronisti...

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mercoledì 27 maggio 2009

“Lo Show dei record” e “Ti lascio una canzone”, i mostri della televisione.

In uno dei primissimi articoli di questo blog avevo analizzato la differenza tra gli acrobati e i fenomeni da baraccone per alludere all’idea di un parallelo con i tronisti della nostra cara tv. Con questo articolo voglio rincarare la dose e portare altri due evidenti esempi di questo fenomeno. Si tratta dei due programmi di intrattenimento “Lo show dei record” (Canale 5) e “Ti lascio una canzone” (Rai Uno). Perché parlarne? Perché in entrambi i casi la tecnica di base è quella dello sfruttamento dei freaks, dei fenomeni da baraccone, delle strane figure che comparivano nei circhi e che erano fonte di grande attrazione.

Napoli, seconda metà dell’Ottocento. La città era strapiena di bugigattoli in cui si faceva teatro e molti programmi teatrali dell’epoca promettevano attrazioni incredibili: in Largo delle Pigne numero 42, nell'Aprile del 1865, si prometteva l'esibizione di una giovane diciottenne siciliana nata senza le braccia; in via Toledo numero 27, era possibile ammirare una donna con una barba di ventiquattro centimetri. Questi sono solo un paio di esempi del fenomeno dei freaks (il cui principio di base l’ho spiegato nell’articolo citato prima). Ci sono evidenti paralleli con il due programmi televisivi che sono l’oggetto di questo articolo.

Basta andare sul sito ufficiale de “Lo show dei record” per rendersi conto dell’offerta. È sufficiente leggere il titolo delle performance di “rilievo”: Lancio del peso eseguito con i muscoli addominali; Attaccarsi sulla faccia il maggior numero di mollette per panni; Piantare il maggior numero di chiodi nel minor tempo possibile usando come martello la propria mano; Rutto della durata maggiore o della maggior durata; Solleva 25Kg con una spada infilata nell'esofago; Maggior numero di salti eseguiti con la tecnica flikflak; Sferrare il maggior numero di calci con una gamba sola…mi fermo alla prima pagina.

Ovviamente con il top raggiunto dall’uomo più alto e l’uomo più basso del mondo.

Questo programma ci costringe a restare incollati davanti alla televisione a seguire queste performance che definirle inutili è il minimo. Però riflettere su questa inutilità può essere utile. Cosa spinge l’uomo a compiere queste nefandezze? Si può ottenere giusta gloria infilandosi centinaia di mutande bianche? È un limite da abbattere quello del numero delle mollette che un viso umano può sopportare? L’aggiunta di una molletta è un passo avanti per l’umanità?

O per caso è il bisogno intestinale di un quarto d’ora di celebrità?

Si farebbe di tutto per andare i televisione.

L’altro programma è “Ti lascio una canzone”, che è anche peggio perché più subdolo. Dietro la falsa intenzione di proporre talenti ci vengono somministrati dei mostri. Pensate un po’: dei bambini con voci alla Caruso, che cantano canzoni da vecchi, vestiti da vecchi e aizzati da genitori con gli occhi che brillano. Se questi non sono freaks! A me quei bambini fanno davvero pena. Anche Mozart veniva esposto dal padre come un prodigio, il che è molto vicino al freaks, ma sono quasi certo che pochi di questi bambini diventeranno musicisti importanti. La loro carriera dura pochi minuti perché inserita nell’economia di uno spettacolo che deve meravigliare per un paio d’ore. 

Leggi anche:

La differenza tra acrobati e Freaks. E poi i tronisti...

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martedì 26 maggio 2009

Al Denton nel giorno del giudizio.

Al Denton nel giorno del giudizio  (Mr. Denton on Doomsday) è il titolo del terzo episodio della serie tv americana Ai confini della realtà (The Twilight Zone). 

Un ex pistolero ubriacone viene continuamente preso in giro e umiliato da un gruppo di cowboy gradassi…


SCHEDA:

Sceneggiatura: Rod Serling.

Regia: Allen Reisner.

Prima trasmissione: 9 ottobre 1959.

 

Attori: Dan Duryea (Al Denton), Martin Landau (Hotaling), Doug McClure (Pete Grant), Malcom Atterbury (Henry J. Fate), Jeanne Cooper (Liz), Ken Lynch (Charlie) e con Arthur Batanides, Robert Burton, Bill Erwin.

Di Allen Reisner (1924 – 2004) ci può interessare sapere che ha girato cinque episodi del telefilm “La signora in giallo”.

Dan Duryea (1907 – 1968) è stato un attore americano di provenienza teatrale. Esordì nel cinema nel 1941 e recitò in pellicole di Fritz Lang, Robert Siodmak, Howard Hawks e anche in Un fiume di dollari di Carlo Lizzani.

Martin Landau (1931 - )è un importante attore newyorkese proveniente dalle file dell’Actors Studio. Ha recitato in Intrigo Internazionale di Hitchcock, nel telefilm Spazio 1999 e di recente ha impersonato Bela Lugosi in Ed Wood di Tim Burton.

Anche in questo episodio manca il tipico colpo di scena finale. Il personaggio viene presentato nella sua condizione normale, entro i confini della realtà, e l’incontro con l’ignoto si limita alla comparsa di una pistola ed ad uno strano individuo che vende delle pozioni magiche. Personalmente non ritengo questo episodio tra i migliori della serie.


Trama (attenti! Viene riportata anche la fine dell’episodio!)

Siamo nel far west. Al Denton ci sapeva fare con la pistola ma ora non è altro che un povero ubriacone che si fa umiliare in continuazione in cambio di un bicchiere. Dopo l’ennesima umiliazione Al Denton si butta a terra in preda alla disperazione nel considerare la sua condizione ma non si sa come compare una pistola vicino a lui. È stato Henry J.Fate a farla comparire. Questo ambiguo personaggio è un venditore ambulante di utensili rarità e …pozioni magiche. Al Denton si vede indirizzato sulla via di ritornare un uomo rispettato e grazie alla pistola diventa di nuovo il cowboy di un tempo. Ma come allora la sua fama attira pistoleri che vogliono sfidarlo. Ma questa volta sa che sarà lui a cadere ucciso. Ma Henry J.Fate interviene con una delle sue pozioni magiche che migliorano le capacità dell’uomo di maneggiare la pistola. Poco prima del duello Al Denton ingoia la pozione ma si accorge che anche lo sfidante l’ha fatto. Entrambi esplodono il colpo e entrambi vengono feriti alla mano. Nessuno dei due potrà più usare la pistola. “Meno male” pensa Al Denton.

Sia dal punto di vista della sceneggiatura che della regia questo episodio non mi ha appassionato molto. Posso dare un giudizio molto positivo però all’interpretazione di Dan Duryea, davvero molto bravo. In effetti la bravura degli interpreti è quasi una costante nella serie tv Ai confini della realtà.

In un altro caso il protagonista è disperato a causa dell’alcool, si tratta del trentaduesimo episodio, Una tromba d’oro.

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domenica 24 maggio 2009

Il metodo Stanislavskij. Via dai luoghi comuni.


Il metodo Stanislavskij è il primo importane sistema dedicato alla recitazione dell'attore. Si tratta della prima volta in cui si pensa all'educazione dell'attore al di là della messa in scena dello spettacolo. Prima di Stanislavskij l'attore imparava a recitare grazie all'osservazione e l'imitazione degli altri attori più esperti. Il suo apprendistato era frutto della reale esperienza sul palcoscenico. Stanislavskij ha voluto dare basi razionali all'apprendimento dell'arte della recitazione. In questo articolo tratterò i punti salienti del metodo Stanislavskij facendo attenzione a sottolineare e sfatare i luoghi comuni e i pregiudizi che si sono creati intorno a questo metodo.

Stanislavskij iniziò a mettere a punto il suo famoso metodo in un periodo difficile della sua carriera artistica: nel 1904 era morto Cechov, il teatro d’Arte era all’apice del suo successo proprio grazie alle opere del celebre scrittore e drammaturgo. Stanislavskij sente il forte bisogno di trovare nuove forme espressive e offre a Mejerchol’d la direzione di un teatro-studio. Siamo nel 1905 e questo progetto non soddisfa affatto Stanislavskij, si tratta di un’ennesima delusione. Stanislavskij sconfessa il suo precedente ruolo di regista-despota alla Chronegk e si concentra sull’attore in quanto coefficiente teatrale di maggior rilievo. Inizia a riflettere su come l’attore possa portare ad alti livelli il meccanismo di creazione. Costruisce cosi il suo famoso metodo.
Alla base del metodo Stanislavskij c’è il concetto di creazione organica (leggi questo articolo). La creazione organica è possibile solo se l’attore si trova in uno stato d’animo creativo grazie al quale può immedesimarsi nel personaggio con facilità. Va aggiunto che l’attore deve raggiungere questo stato di grazia ogni sera, a comando.
Per Stanislavskij raggiungere lo stato creativo è un avvenimento molto raro e la maggior parte degli attori ricorre all’uso di cliché, cioè di atteggiamenti stereotipati che generano una recitazione esteriore, artificiosa. Ciò non porta a creazioni vive, credibili e efficaci ma a situazioni in cui l’attore sembra il personaggio, dove invece dovrebbe esserlo.
Il lavoro dell’attore su se stesso.
Nel metodo Stanislavskij il lavoro inizia con l’allenamento dell’ io dell’attore. Si tratta di conoscere a fondo se stessi e arricchire le proprie potenzialità e la proprio creatività. In questo principio del metodo Stanislavskij l’attore deve educare se stesso e la propria coscienza. Nel lavoro su sé stesso l’attore deve poter intervenire razionalmente sui meccanismi interiori (emotivi e psicologici) che stanno alla base dell’immedesimazione, attraverso esercizi di rilassamento, concentrazione, comunicazione, ingenuità e immaginazione.
Gli esercizi di rilassamento servono ad eliminare la tensione muscolare e le resistenze del corpo che impediscono il lavoro dell’attore.
Gli esercizi di concentrazione impediscono che fattori esterni, come per esempio la presenza del pubblico, distolgano l’attenzione dell’attore.
La comunicazione serve ad imparare a rivolgersi realmente e con efficacia agli altri attori e non al pubblico. Si tratta di ascoltare davvero ciò che dice l’altro attore e non pensare solo alla battuta che si deve dire dopo. Sono molto comuni errori come questo: se per esempio un attore deve dire “passami il bicchiere verde” e durante lo spettacolo sbaglia e dice “passami il bicchiere rosso”, l’altro attore se non sta attento gli passerà comunque il bicchiere verde perché alle prove ha sempre fatto così. Succedono spesso cose del genere.
L’ingenuità e l’immaginazione sono le doti dei bambini che l’uomo adulto ha perso e che sono determinanti per conferire verità e per arricchire la propria creazione.
Via dai luoghi comuni.
Per Stanislavskij il concetto di verità è essenziale. L’attore non deve recitare bene o male, ma vero. La sua verità è interiore, vissuta e sofferta. Per questo non si può partire né dalla finzione né dall’imitazione. L’attore non deve sembrare o fingere, ma essere il personaggio, deve cioè viverlo.
Bisogna stare attenti però! Non si tratta di ricopiare la vita reale; non è un eccesso di naturalismo come potrebbe sembrare e come viene alimentato dai luoghi comuni sul metodo Stanislavskij. Lo scopo è sempre quello di una creazione organica, efficace, credibile e più vera della realtà. La situazione dell’attore è difficile: deve essere vero, mentre tutto è falso intorno a lui (scene, costumi, trucco, luci, pubblico). Nonostante tutto deve creare la sua verità e crederci fino in fondo.
Circostanze date e magico se.
Il metodo Stanislavskij fornisce all’attore due strumenti fondamentali per creare questa verità: le circostanze date e il magico se.
Le circostanze date sono l’insieme dei fatti e delle situazioni che si possono ricostruire a partire dal testo e riguardano l’epoca, l’ambientazione, il passato e il futuro del personaggio. Si tratta cioè di ricostruite nei minimi dettagli la vita del personaggio, anche ciò che non viene detto nel testo.
Una volta ricostruito questo sottotesto l’attore ricorre al magico se: L’attore deve mettere se stesso nei panni del personaggio e farsi la domanda “Se io mi trovassi nelle sue condizioni, come mi comporterei?”. Partire da se stessi è anche un’accettazione di certi limiti: nessuno può fare di più di ciò che è, quindi è sbagliato partire da ciò che non si è. Ma attenzione ancora! Il proprio io non è un punto di arrivo ma un punto di partenza. Non si tratta di riversare se stessi nel personaggio. È solo l’inizio di un lungo percorso che serve alla creazione di un altro se stesso.
Queste operazioni sono poi costantemente arricchite dall’immaginazione dell’attore che aggiunge particolari e dettagli al sottotesto che si viene man mano creando.
Il personaggio comincia così a prendere vita.
La memoria emotiva.
Per imprimere vita al personaggio l’attore deve sempre partire da se stesso, per non recitare dall’esterno la parte e ricorre quindi alla memoria emotiva, che è l’aspetto fondamentale del metodo Stanislavskij.
Per esprimere emozioni che appartengono ad un’altra persona (il personaggio) l’attore deve trovare dei punti di contatto tra la sua vita e quella del personaggio. Deve cioè andare a ritroso e ricercare quei momenti della sua vita che hanno provocato sentimenti analoghi a quelli del personaggio. La vita reale dell’attore viene innestata in quella fantastica del personaggio che assumerà quindi l’apparenza di una vita vissuta. Naturalmente l’esperienza non può essere la stessa, l’importante è che si ponga in un rapporto di analogia tale da provocare simili emozioni. Il personaggio sarà così dotato di esperienze realmente vissute.
Questo è un passaggio fondamentale che scardina totalmente tutti i pregiudizi e i luoghi comuni a proposito del metodo Stanislavskij. Questo processo è molto lontano dall’immedesimazione che prevede la scomparsa dell’attore in virtù del personaggio. Qui si tratta di un innesto, di una sintesi, di un parto. O meglio ancora di una simbiosi vivente tra vita dell’attore e vita del personaggio. Non scompare né l’uno né l’altro. Entrambi partecipano alla creazione di una terza vita.

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sabato 23 maggio 2009

Un discorso per gli angeli.

Un discorso per gli angeli (One for the Angels) è il titolo del secondo episodio della serie tv americana Ai confini della realtà (The Twilight Zone). L’episodio parla dell’incontro tra un venditore ambulante e il signor Morte che lo informa che a mezzanotte deve seguirlo perché è arrivata la sua ora. Il venditore ambulante riesce però ad ottenere un rinvio…

SCHEDA:

Sceneggiatura: Rod Serling.

Regia: Robert Parrish.

Prima trasmissione: 9 ottobre 1959.

Prima trasmissione in Italia: 29 maggio 1962 su RAI 1.

Attori: Ed Wynn (Lew Bookman), Murray Hamilton (Signor Morte), Dana Dillaway (Maggie), Merrit Bohn (l'autista del camion), Jay Overholts (il dottore), Mickey Maga (il bambino).

 

Il regista Robert Parrish ha diretto tra gli altri il western Lo sperone insanguinato del 1968 e James Bond 007 – Casino Royale del 1974.

L’attore Ed Wynn è stato un importante comico americano, un caratterista molto popolare che ha lavorato per la radio (The Fire Chief), per la televisione e per il cinema (per esempio: Fritz Pfeffer in Il diario di Anna Frank del 1959 e Zio Albert in Mary Poppins del 1964).

L’attore Murray Hamilton va ricordato per la sua interpretazione nei passi del signor Robinson nel film Il laureato del 1967.

 

Già da questo secondo episodio di Ai confini della realtà compare la caratteristica strutturale tipica della serie TV: il protagonista viene presentato prima nella sua quotidianità e ci viene descritto dalla voce narrante e poi viene messo di fronte all’ignoto. Nel precedente episodio (Le barriere della solitudine) abbiamo invece visto che il personaggio veniva immerso direttamente nella dimensione dell’incubo. Da notare però l’assenza del tipico colpo di scena finale. Non c’è infatti il solito ribaltamento di prospettiva. Che invece era presente nel primo episodio.

 

Trama (attenti! Viene riportata anche la fine dell’episodio!)

 Lew Bookmann è un venditore ambulante. E’ una persona normale, la voce narrante lo descrive così: “fa parte della scena estiva. Un trascurabile elemento di questo luglio afoso. Un anonimo uomo qualunque la cui vita è una trama tessuta sui marciapiedi”. Quando torna a casa trova un uomo distinto che su un taccuino ha appuntato tutti i particolari della sua vita e lo informa che la sera stessa a mezzanotte deve partire, cioè morire. Quell’uomo è la Morte. E’ stata scelta per Lew Bookmann una tranquilla morte nel sonno, un vero privilegio. Ma lui non ha nessuna intenzione di morire e si oppone. La Morte lo informa che solo in tre casi si può ricorrere in appello: per situazione familiare (si si ha moglie e figli), in caso uomini di stato o di scienziati sul punto di fare importanti scoperte e la terza riguarda lavori incompiuti di particolare importanza. Lew Bookmann non appartiene assolutamente ai primi due casi e cerca un modo per sfruttare il terzo. Ha sempre fortemente desiderato di fare un grande discorso, un discorso così bello che possa raggiungere il cielo, un discorso per gli angeli. Dopo un po’ di riluttanza la morte accetta e Lew Bookmann esulta affermando che non farà mai quel discorso. Intanto la piccola Maggie viene investita e le sue condizioni sono gravi. Se riesce a passare la mezzanotte si salverà. Giunge il signor Morte e informa Bookmann che a mezzanotte deve portare via Maggie. Il signor Bookmann comincia a sfoderare tutte le sue capacità di venditore ambulante e riesce a imbambolare la Morte a colpi di offerte strabilianti della sua merce. La Morte cade in preda al bisogno di acquistare e perde l’appuntamento con la dipartita della piccola Maggie, che è così salva. Il signor Bookmann ha fatto così il suo discorso per gli angeli e si vede costretto a seguire il signor morte.

 Questo episodio può apparire un po’ banale e scontato in quanto l’incontro con la Morte è un tema molto ricorrente. Ma presenta comunque degli aspetti interessanti. In particolare la scena del discorso è a mio avviso meravigliosa e ricca di significato in particolare per i nostri tempi. Pensate un po’: un piazzista, un venditore ambulante che riesce persino ad abbindolare la Morte, grazie all’arte della parola. Oggi diremo grazie all’efficacia della sua comunicazione. La comunicazione pubblicitaria è fatta per lo più di apparenze, si sa. Il mestiere del piazzista è quello di vendere al di là della qualità reale del prodotto venduto. Se riflettete un po’ di più e concludete il discorso da voi, arriverete facilmente alla conclusione di questo discorso.


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venerdì 22 maggio 2009

Le barriere della solitudine.

Le barriere della solitudine (Where is Everybody) è il titolo del primo episodio della serie tv americana Ai confini della realtà (The Twilight Zone): l’episodio è quello in cui il protagonista si trova completamente solo in una città, è infatti l’ultimo uomo rimasto sulla terra, ma naturalmente c’è il colpo di scena finale…

 

SCHEDA:

Sceneggiatura: Rod Serling.

Regia: Robert Stevens.

Musica: Bermard Herrmann.

Prima trasmissione: 2 ottobre 1959.

Prima trasmissione in Italia: 14 gennaio 1971 su RAI 1.

Attori: Earl Holliman (Mike Ferris), James Gregory (il generale) e con John Conwell, Paul Langton, James McCallion, Jay Overholts, Carter Mulavey, Jim Johnson, Gary Walberg.

 

Le barriere della solitudine (Where is Everybody) è, come tutti gli altri episodi, introdotto dalla voce narrante di Rod Serling, ma c’è una minima differenza: inizia dicendo “Esiste una quinta dimensione oltre a quelle conosciute dall’uomo…” mentre in seguito sarà “Oltre le dimensioni che l’uomo conosce ne esiste un’altra”. Sono differenze minime che riporto solo per la cronaca.

La struttura si può dividere in tre parti e il solito epilogo: In un primo momento il protagonista scopre di essere solo, in una seconda parte avviene il suo vagabondare per la città, la terza parte lo porta all’esasperazione e l’epilogo ci svela il mistero.

 

Trama (attenti! Viene riportata anche la fine dell’episodio!)

Il protagonista è Mike Ferris e lo troviamo immerso nel confine della realtà (diciamo nella dimensione dell’ignoto) già all’apertura dell’episodio. Entra infatti in un fastfood e nessuno risponde alle sue chiamate. Quando arriva in città essa è completamente deserta, non c’è anima viva. Ad un certo punto scorge però una donna in un furgone, va per domandarle qualcosa ma scopre che si tratta di un manichino. Dopo aver vagato per la città, in un altro fastfood in cui vendono anche libri si accorge che tutte le copie riportano il titolo The Last Man on Earth. Prosegue il suo vagabondare sempre più disperato fino a giungere in un cinema. Arriva al massimo dell’esasperazione e inizia a gridare “Aiutatemi!, Aiutatemi!”.

Colpo di scena.

Come accade in ogni episodio il colpo di scena finale ci fa scoprire che in realtà Mike Ferris è un aviatore in preda ad un sogno talmente vivido da farlo sembrare reale. Ciò è accaduto a causa della solitudine provocata da un’esercitazione preparatoria per un futuro viaggio sulla Luna. Il protagonista è rimasto due settimane chiuso in uno spazio ristretto fino all’esaurimento.

 

Il tema è quello dell’impossibilità da parte dell’uomo di sopportare la solitudine, l’assenza di suoi simili. Nel corso del sogno ci sono alcuni dettagli che evidenziano la condizione disumana della solitudine: Mike Ferris parla con un manichino, si parla nello specchio e gioca a tris contro se stesso.

Una cosa interessante e che da un tocco straniante è la disseminazione di segni di vita: un sigaro appena acceso, una pentola d’acqua che bolle su un fornello, un telefono che squilla.

La domanda è: l’uomo può sopportare la solitudine? Il suo bisogno di vita sociale può venire meno? Può essere addestrato alla solitudine?

C’è un evidente rapporto con Cast Away.

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